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domenica 24 dicembre 2006

Calcio: Innamorarsi a Roma

Qualcuno di voi si sarà chiesto da dove deriva il mio fanatismo fanciullesco, infantile, puerile per quella sfera che rotola e fa scivolare i sogni lungo il declivio dell'eternità. Sono molte le piccole particelle di questo virus che si è impossessato della mia vita fin dai suoi primi bagliori, e una di esse è germogliata nella Capitale, sotto quella Curva Sud che non può non far parte dell'immaginario mistico di qualunque malato del pallone. Scrive il Sommo Poeta della narrativa calciofila anglosassone, Nick Hornby, nella sua opera omnia del tifo che diventa vita e religione, "Febbre a 90'": "il boato che saluta il gol ha una sonorità speciale, proveniente dal profondo, che si sente solo quando tutti nello stadio, tranne i tifosi avversari, mettono nell'urlo tutto quello che hanno, anche la gente che è sulle poltroncine da quindici sterline". Trasportiamo tutto un po' più a sud: 19 marzo 1996, Stadio Olimpico, Roma-Slavia Praga. E' la gara di ritorno dei quarti di Coppa Uefa e la Roma deve rimontare il 2-0 subito nella città kafkiana per eccellenza. Segna nel primo tempo Moriero, un core de Roma, uno dei tanti della storia giallorossa. Ma in quella squadra gioca anche il core de Roma più palpitante, più emozionante, più rosso di sangue e d'amore che la lupa abbia partorito: Giuseppe Giannini, il Principe. Anzi, er Principe. Mancano 8 otto minuti alla fine e serve un gol per prolungare il sogno fino ai supplementari, o forse ai rigori, o forse ovunque il cuore umano sappia arrivare. E quel gol è racchiuso in un cross che spiove dalla sinistra, il pallone attraversa l'area come un'idea attraversa la mente di Van Gogh di fronte a un campo di girasoli: il Principe si avventa sul suo suddito, non è un Principe machiavelliano bensì un Principe democratico

che vuole inebriare tutta la sua gente di quell'istante atteso una vita, e il pallone dalla sua testa abbraccia la rete, la divora. In quell'attimo prende vita la leggenda di cento mille respiri della vita di ognuno. Giannini, il Capitano di un decennio d'amore, il poeta che in quello stesso stadio alimentò la struggente e meravigliosa utopia delle notti magiche, ora è sotto la sua Sud, sotto la curva che usava da bambino per ribellarsi alla finitezza e alla mortalità di ogni creatura. Tutto in quel momento aveva un ordine cosmico e della passione, compreso il finale della storia: Moriero nei supplementari segnerà il 3-0 ma poi a 7 minuti dal trionfo lo Slavia getterà nella disperazione i 70mila dell'Olimpico. In fondo è questa la vita: il migliore ferma il tempo, lascia gli dèi raggelati da tanta bellezza ma spesso soccombe. Era già successo al Maracanà 46 anni prima, era già successo molte volte nel calcio e nel quotidiano vivere di ogni vita. Sarebbe successo ancora ma nulla sarebbe stato più capace di infrangere l'epopea di quella sera. Dice l'inno della Roma, "dimme cos'è che me fa sentì importante anche se nun conto niente": ecco l'essenza del calcio, di Giuseppe Giannini, del gol allo Slavia, della corsa sotto la curva. In quel momento siamo stati tutti importanti e tutti unici, chi era là e chi come me si commuoveva davanti a un televisore. Siamo stati tutti sotto quella curva, insieme a quella bandiera del calcio che camminava ormai lungo il viale del tramonto ma non camminava da sola, come insegnano i cori di Anfield Road. E quella bandiera, prima di ammainarsi, ha fatto il dono più grande a tutti coloro che dopo i 5 anni di età si sono nutriti di corse sotto curve immaginarie, fossero i cespugli ai lati di una ferrovia o un vecchio granaio abbandonato: ha riscaldato nel cuore ognuna di quella curve e fatto amare ogni battito di quella carezza rotonda.

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